Tre alpinisti italiani Alberto Bolognesi, Francesco Torre e Emanuele Foglia, nel maggio scorso hanno portato a termine la loro impresa: la vetta del Monte McKinley conoscuita anche come Denali, la più ambita dell'America Settentrionale.
Cosa scatta nella mente di un alpinista quando incomincia a pensare ad un' ascensione? Quando si sceglie una meta per una spedizione, qualche volta, si ha difficoltà ad individuare l’esatto motivo che spinge all’impresa. È qualcosa che inizia a prenderti dalla pancia, che cresce dentro, per istinto ti senti pronto all’incontro con quella particolare montagna. Poi sale al cuore e, piano piano, ti innamori dell’idea, la pensi, la accarezzi, la sogni. Ti immagini solo, tu e la montagna. Poi parli con lei, apri la mente per percepire cosa ha da dirti, cosa ha da consigliarti. Solo in seguito l’idea prende forma nella testa, nella tua parte razionale. Allora è arrivato il momento, sai che devi partire, preparare e pianificare la spedizione. È il momento in cui tutto diventa reale.
L’input iniziale può partire da te stesso o da un tuo compagno. Questa volta, nel caso dell’ascensione al Denali, è stato Frans, Francesco Torre il colpevole.
Un giorno come tanti altri, mentre è impegnato nella sua quotidianità, la guida alpina Alberto Bolognesi riceve una chiamata dall’amico alpinista Francesco Torre: “perché non facciamo il Denali con gli sci quest’anno? Partiamo a fine aprile, prima che arrivi il mondo, e arriviamo in cima. Venti giorni e ce la caviamo. “
Basta poco a convincere Alberto, lui è un entusiata, appena un'idea lo stuzzica si carica di euforia. Anche Lele (Emanuele Foglia guida alpina del gruppo Altox), giovane, pieno di entusiasmo e di energia decide di aggregarsi.
Alby conosce bene il Sud America, il Cile, la Bolivia… ma anche per lui l’Alaska è un po’ come l’ultima frontiera. È una terra di contrasti, selvaggia, dove l’uomo misura i propri limiti attraverso la montagna, il freddo, il vento e la solitudine. In Alaska c'è solo natura lontana dalla civilizzazione.
Il McKinley è l’unica montagna dove non sono né previsti né permessi i portatori; tutto il materiale necessario deve essere “a carico” dei membri della spedizione ed è proprio questo che la rende unica, difficile, quasi inaccessibile. Qui rinasce l’atavica lotta tra l’uomo e la montagna.
Si tratta della montagna più alta dell’America settentrionale ed è la terza in assoluto per dislivello, che è di 5400 metri. Dal campo base sono 4200 m da superare e 60 km di distanza da coprire. Il tempo stimato per la salita è di 10 giorni, quello per la discesa di 3.
La spedizione italiana ha stimato 14 giorni in quota, senza appoggi, portando con sè tutta l’attrezzatura e il cibo per 3 settimane, il limete richiesto dalle leggi federali. Che, tradotto in parole semplici, significa circa 70 kg a testa, 20 sulle spalle nello zaino e 50 sulla slitta, la pulka. I tre alpinisti sono anche disposti ad accettare il fatto che, in caso di incidente, probabilmente nessuno li andrà a cercare. Per loro la dead line è scritta sul permesso: 24 giugno. Fino a quel giorno nessun Ranger muoverà un dito per cercarli. Dopo, forse sì. Ma a quel punto sarebbe troppo tardi. Accettato questo fatto è vietato avere incidenti o stare male!
I campi sono aree sicure ma dove non c’è nulla. Ti devi costruire la piazzola nella quale montare la tenda, costruire i muri intorno alle tende per frenare il vento che sferza violento, scavare nel ghiaccio buche che diventeranno la tua cucina ed il tuo bagno.
I tre italiani Alby, Lele e Frans incontrano due alpinisti svizzeri: Lucas e David. Con loro decidono di affrontare l’impresa. L’aereo abbandona il gruppo sul ghiacciaio East Forth Kahiltna. Nel momento esatto in cui lo vedi ridecollare e tu rimani lì, un puntino minuscolo nel mare bianco sconfinato, ti rendi conto di quanto piccolo e folle sia il tuo ego e ti chiedi chi te lo ha fatto fare? E sai benissimo che, da quel momento in poi, le tue capacità e le tue forze sono le sole cose su cui potrai contare. Ti guardi intorno e inizi a percepire quanto il massiccio sia vasto e la meta lontana.
Fin dai primi spostamenti, la fatica svuota la mente. Sei consapevole che per molti giorni soffrirai il freddo, il vento, la fatica. Dubbi e paura giocano con la mente in un continuo valzer di ripensamenti. A più riprese ti si presenterà davanti l’idea della rinuncia. Si tratta sempre e solo di scegliere lucidamente e chiaramente se continuare o tornare indietro.
La dimensione del viaggio è una lente che deforma il vissuto: non sarai più quello di prima quando tornerai.
I primi tre giorni il tempo è clemente e si sale relativamente poco. Le slitte si portano con facilità. Ai campi i ragazzi della spedizione prendono confidenza con la costruzione di cucine in ghiaccio. Si tagliano con la sega grossi mattoni di ghiaccio e via a fare muretti, ripiani e ripari esattamente come gli eschimesi fanno con gli igloo.
Il quarto e quinto giorno Alby, Lele e Frans restano bloccati al campo3 a 3300 m a causa della bufera. Dormire con -15 all’interno della tenda non è certo riposante.
Più si sale e più le pulke diventano un problema. Il massimo della difficoltà aguzza anche il massimo dell’ingegno. Tra campo3 e Campo4 c’è il MotorCycle Hill, un ripido tratto di oltre 300 m che con le slitte mette a dura prova. Unico medo per proseguire è utilizzare le tecniche di soccorso: dopo aver attrezzato una sosta di ancoraggio si montano una carrucola con autobloccante, e grazie a 60 metri di corda, si issa la pulka facendo contrappeso con il proprio corpo. La spedizione capisce che per proseguire deve diminuire i carichi, così sono troppo pesanti. Il McKinley non è proprio una passeggiata: fa freddo e quando va bene il termometro segna 26 gradi sotto zero. Arrivati a campo 5 ci si deve vestire con i tutoni. Altrimenti sarebbe impossibile resistere. Di notte, anche dentro la tenda si scende fino a -26 gradi. Piumino, maglione e berretto sempre indossati, eppure si forma il ghiaccio persino dentro il sacco a pelo.
È il 12 maggio e dal campo 5 partono due cordate, Lele si è legato a Lucas uno degli svizzeri, mentre Frans con Alby. David, il secndo alpinista svizzero, non sta bene soffre di mal di montagna e dovrà rinunciare.
Le due cordate arrivano in vetta alle 15,10 del 12 maggio. Troppo stanchi per ripartire.
Il mattino seguente si inizia il ritorno al campo4 e, durante il percorso, si alza la bufera. Gli alpinisti questa volta hanno avuto fortuna e hanno sfruttato una finestra meteo favorevole perché, nelle settimane seguenti, più nessuno è riuscito a salire.
Al termine dell’impresa i tre alpinisti italiani Alberto Bolognesi, Francesco Torre e Emanuele Foglia sono 3 delle 12 persone salite in vetta su un totale di 354 alpinisti che hanno intrapreso la salita.
Il 18 maggio, 21 giorni dopo la partenza, si rientra a casa. Ora è tempo che il Denali conceda le sue pendici al altri uomini che rispettosi e caparbi tentino la sua conquista.
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