Il Nanga Parbat di Daniele Nardi come il K2 di Walter Bonatti? Paragone forzato come certi titoloni

Il Nanga Parbat di Daniele Nardi come il K2 di Walter Bonatti? Il paragone appare forzato come certi titoloni
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AlpinismoImprese da Ottomila

Il Nanga Parbat di Daniele Nardi come il K2 di Walter Bonatti? Paragone forzato come certi titoloni

Un video del 39enne di Sezze, l'escluso del gruppo, in cui racconta la sua verità e soprattutto lo strillo ai confini della realtà di un'intervista a Simone Moro su Libero scatenano reazioni tra i protagonisti con o senza cima della prima invernale più ambita degli ultimi 30 anni di alpinismo.

Negli ultimi giorni sono riesplose le polemiche fra gli alpinisti italiani che in un modo o nell'altro hanno giocato un ruolo importante nella prima invernale sul Nanga Parbat. Nell'ultima video intervista di Daniele Nardi, apprezzabile e ben strutturata nel racconto, tra le altre cose ribadisce con forza come il diritto di scalata spetterebbe a chi ha scelto la via e l'ha attrezzata.

In realtà la cosa che appare, soprattutto dai momenti registrati in parete in presa diretta, è la sua particolare condizione psicologica, percepita forse dagli altri compagni di spedizione come segnale di insicurezza, specie dopo la sua caduta sotto il campo 2, che lo hanno portato all'esclusione. Umanamente non può che dispiacere quello che gli è successo ma paragonare la sua vicenda a quella di Walter Bonatti sul K2, come qualcuno ha tenato, è improponibile.

Chi abbia spinto di più ad estromettere Nardi dal gruppo poco importa. Sicuramente ognuno cerca di fare il proprio gioco. In montagna, in determinate circostanze, avviene una sorta di selezione naturale, che nel bene o nel male non può di certo basarsi sulla raccomandazione, la simpatia, l'opportunismo o l'invidia come avviene in molti posti di lavoro.

Più si sale e più ci si affida ad una sorta di empatia d'alta quota e senso pratico, dettato in modo direttamente proporzionale dall'istinto di sopravvivenza. Soprattutto emergono il saper riconoscere l'esperienza, la capacità logistica e il modo di scalare. Una sorta di linguaggio imparato col fare e che si esprime ancor prima che con le parole attraverso il curriculum di ciascuno, le scelte fatte in passato.

Simone Moro non ha niente per cui scusarsi, come invece ha voluto fare su facebook. I precedenti tentativi sul Nanga Parbat e la sua grande capacità nel raccoglie e analizzare le informazioni e nella lettura della situazione gli hanno permesso di realizzare che fosse l'anno giusto per portare a termine un sogno. Non è rilevante che lo abbia fatto cambiando la via e i compagni di esplorazione. Succede. Davvero qualcuno crede che per ambizione personale metterebbe in discussione la sua reputazione?

Se non sai adattarti non vai da nessuna parte. Moro sapeva che sarebbe servita parecchia pazienza e non c'era margine di errore e spazio per alcun tipo di incertezza, soprattutto altrui. Come ha dimostrato la rinuncia di Tamara Lunger. La strategia di Moro è risultata preziosissima per la riuscita di un lavoro di gruppo che ha funzionato. È stato lui, per esempio, a convincere gli altri che nell'assalto alla vetta si doveva partire con la luce del giorno anche se il dislivello da affrontare era molto grande.

L'altro motivo scatenante di nuove tensioni post Nanga Parbat è stata l'intervista di Libero al recordman delle invernali firmata da Filippo Facci. L'incalzare delle domande e l'indubbia padronanza della materia, condita dalla cronica voglia dell'autore di mettere zizzania, la rendono molto efficace. Peccato che il tutto sia rovinato dal titolo: "Senza la Lunger saremmo morti sul Nanga Parbat". Virgolettato molto forzato attribuito a Moro, che ha mandato su tutte le furie lui e la sua compagna di spedizione.

Libero ci ha abituato a strilli ai confini della realtà. Facci ha dichiarato che la responsabilità non è sua ma del titolista. Viene difficile credergli fino in fondo, visto che non è un collaboratore qualunque che scrive da uno sperduto maso. E soprattutto lui stesso ha affermato di aver calibrato le parole nella stesura dell'intervista. Tant'è. Il risultato finale danneggia solo l'alpinismo, come accade con la montagna quando la si definisce assassina nel caso di tragedie o incidenti fatali. Parafrasando un po' Totò e un po' Fantozzi: "Ma ci Facci il piacere!"

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