Tanti dubbi e poche certezze riguardo il "Meldonium-gate"

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Tanti dubbi e poche certezze riguardo il "Meldonium-gate"

Il numero di atleti positivi al “Meldonium” sta aumentando ora dopo ora senza soluzione di continuità coinvolgendo discipline di vario genere e numerose nazioni. Tuttavia, nella vicenda non mancano i vuoti di sceneggiatura e sarà opportuno fare chiarezza in tempi celeri.

Non si tratta di essere colpevolisti o innocentisti, né di dare il via alla consueta gogna mediatica, bensì di cercare di trovare risposte ad una serie di interrogativi, qualcuno anche banale.


Andiamo con ordine.

Secondo quanto riportato dai ben informati, la WADA avrebbe monitorato l’utilizzo della sostanza per l’intero 2015 prima di decidere di includerla nella lista nera con decorrenza dal 1 gennaio 2016. Nello specifico, si narra di 12.000 provette analizzate, di cui 4.000 appartenenti ad atleti russi e 8.000 al resto del mondo. Secondo quanto emerso, la presenza del Meldonium sarebbe stata riscontrata nel 17% delle provette russe e nel 2,2% di quelle del resto del Mondo.

Preso atto di una serie di numeri che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni, il primo quesito che sorge spontaneo è il seguente: Com’è possibile che un terzo dei test abbia riguardato atleti russi? Da quando la Russia copre da sola il 33% del panorama sportivo mondiale?


Spingiamoci comunque oltre.

Ovviamente, come avviene in questi casi, ciascun comitato olimpico nazionale , tramite le rispettive federazioni sportive "imbeccate" dall'agenzia nazionale antidoping, ha avvertito con largo anticipo gli atleti riguardo il cambiamento di status della sostanza incriminata.  Logica vuole che il farmaco non venisse più utilizzato, ma la storia recente ci ha insegnato come le cose siano andate diversamente.
Di norma, gli atleti di caratura internazionale sono seguiti da staff medici di eccellenza, motivo per cui non appare credibile che ci sia stata una mancanza di comunicazione riguardo l’impossibilità di assumere la sostanza.  La non cognizione di causa sulla situazione sarebbe una testimonianza di assoluta negligenza e dilettantismo, quindi risulta improbabile. Dando per scontata la professionalità di atleti e staff medico, com’è possibile che nel sangue di numerosi soggetti testati nel mese di gennaio fosse presente una sostanza ormai vietata?


In questo caso le risposte possono andare in una duplice direzione.


A) Andrebbe chiarito per quanto tempo i metaboliti del farmaco ricercati attraverso i test rimangano tracciabili nell’organismo dopo l'ultima assunzione. In molti hanno, infatti, sostenuto, di avere fatto ricorso al Meldonium nel 2015, quando ancora l’utilizzo era consentito.

Tuttavia, partendo da questo presupposto, si apre un altro versante assai spinoso.

In base a quanto previsto dalla WADA, gli atleti monitorati devono dichiarare ogni tipologia di farmaco utilizzato, che sia vietato o permesso non fa differenza. Inoltre, in presenza di esenzione terapeutica, tocca ad una commissione medica valutare la reale necessità del ricorso al farmaco, chiaramente nel rispetto di un determinato quantitativo.

A questo punto però si pone l’ennesimo interrogativo:
Quanti atelti trovati positivi in questi giorni avevano, in precedenza, segnalato l’utilizzo del Meldonium e, per quanti, soprattutto, era necessaria l’assunzione?

Chi poteva effettivamente assumere il farmaco potrebbe sperare in una via d’uscita o in una pena lieve (Sun Yang docet), ma il destino degli altri sembrerebbe già segnato in quanto l’infrazione risulterebbe già a monte (fermo restando che la sostanza sia stata assunta da gennaio in avanti).

Pare, in ogni caso, evidente come l’assunzione del farmaco non fosse nella maggiore parte dei casi segnalata perché, in caso contrario, non sarebbero stati necessari 12.000 test per appurarne la presenza. In automatico, la WADA sarebbe già stata a conoscenza del frequente utilizzo e avrebbe potuto porsi con largo anticipo una serie di legittimi quesiti.

Da tutto questo si evince come il farmaco venisse somministrato agli atleti all’oscuro della WADA, operazione che rappresenta una prova provata delle “facoltà dopanti” del Meldonium. Se la sostanza non avesse generato migliorie di diversa sorta nelle prestazioni, nessuno si sarebbe posto problemi nel segnalarne l’utilizzo.


B) Potrebbe darsi, ipotesi tutta da verificare, che l’utilizzo del Meldonium anche nel 2016 sia stato, invece, necessario per cercare di coprire altre sostanze riconducibili alla categoria dell’EPO (eritropoietina).

Anche in questo caso però sorgono dubbi. Perché atleti di caratura internazionale avrebbero deciso di gareggiare con la quasi certezza di essere trovati positivi per via dell’utilizzo di una farmaco metabolico del cuore vietato?

In una situazione di estremo rischio, la logica sarebbe dovuta essere quella di disertare gli eventi in calendario con la speranza di non essere sottoposti nel mentre a controlli a sorpresa. Nel 2016, non è davvero credibile che atleti di primo piano vadano allo sbaraglio mettendo a repentaglio la carriera.


Traendo le conclusioni, è evidente come l'intera vicenda risulti assai nebulosa e per certi versi priva di ogni logica. Tuttavia, in un contesto di estrema confusione, qualche spunto interessante si può comunque ricavare.

Il concetto che tutto quanto non vietato dalla WADA si possa utilizzare con lo scopo di essere più competitivi nella rispettiva disciplina non può essere ammesso. Se un atleta ha necessità di utilizzare un certo farmaco, lo può assumere previo prescrizione medica seguendo l’iter spiegato in precedenza, in alternativa non lo deve usare pena squalifica immediata.

E’ perciò necessario mantenere una ferma posizione contro l’utilizzo di qualsiasi farmaco, anche lecito, senza scopi prettamente terapeutici.

In attesa della risposta ai tanti quesiti insoluti, si tratta dell’unica lezione che il “Meldonium-gate” ci ha per ora regalato.

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