Per Andrea Chiarotti, uno dei 35 atleti italiani impegnati da sabato 9 marzo a Sochi, non sarà una Paralimpiade invernale come le altre due già disputate. Questo è certo. Perché per essere sicuri di quanto saranno speciali i suoi Giochi, non parliamo (ancora) di risultati. Parliamo di un onore riservato a pochi sportivi: il capitano della Nazionale di sledge hockey sarà infatti il portabandiera della delegazione azzurra durante la cerimonia d’apertura che si terrà al Fisht Olympic Stadium della città sul Mar Nero.
Il 47enne torinese di Torre Pellice, sarà l’alfiere del team Italia. Una decisione che lo riempie d’emozione e di orgoglio, lui che è stato uno dei capostipiti del movimento italiano dell’hockey su slittino sin da quando, nel lontano 2003, si costituì la squadra nazionale in vista dei Giochi Paralimpici di Torino 2006. Da allora sono stati fatti passi da gigante per questo sport, coinvolgendo partecipanti da tutta Italia e facendo migliorare il movimento fino alla conquista titolo europeo nel 2011. L’Italia dello sledge hockey si è così conquistata un posto stabile nell’élite del ghiaccio, con una costante: Chiarotti ne è rimasto sempre il capitano. Perciò, in Russia, è arrivato il premio alla sua dedizione e alla crescita di un movimento. Una ricompensa riservata a un atleta di una disciplina (tra le cinque presenti ai Giochi) di squadra. Un evento di certo raro. Tant’è vero che “Ciaz” (così è soprannominato l’hockeista) sarà l’azzurro a mostrare il tricolore al mondo. L’appuntamento è fissato per oggi pomeriggio (ore 17 italiane con diretta tv e streaming su Rai 3), quando la cerimonia degli XI Giochi Paralimpici invernali avrà inizio, fino all’esordio in gara contro gli Usa (sabato alle 13:30). Dopo la sua nomina avvenuta nel novembre 2013, Chiarotti ha atteso con fierezza e tranquillità il "giorno X”. Gli abbiamo chiesto come si è preparato per oggi. Ma oltre alla soddisfazione personale per l’incarico prestigioso, ha fatto emergere il suo ruolo in nome di tutta la squadra. A conferm6a della scelta giusta: perché chi non potrebbe essere il condottiero più adatto se non un uomo-squadra come lui.
Una storia iniziata nel 2003 e arrivata fino al 2014. Dopo 11 anni, avrebbe mai pensato di essere ancora il capitano della squadra di sledge hockey fino all’investitura di portabandiera italiano?
«Assolutamente no. Se riguardo al 2003, il progetto aveva una prospettiva a breve termine. L’avevamo mandato avanti in funzione di nazione ospitante a Torino 2006. Da lì a immaginare di continuare con il team raggiungendo i risultati ottenuti nel corso di un decennio, posso dire che era praticamente impensabile, anzi, impossibile. Non ci veniva nemmeno chiesto nulla di paragonabile all’inizio. Di certo, però, abbiamo subito tutti pensato che sarebbe stato un punto di partenza per proseguire nel corso del tempo con il movimento».
Un discorso che l’ha vista in prima fila sin dal principio…
«Sì, perché partivo con una buona esperienza. All’epoca giocavo già. Così mi ha contattato la Federazione e ho avuto la possibilità di andare in giro per osservare il mondo: nel 2004, per esempio sono andato a seguire i successivi Mondiali in Svezia. Da lì ho osservato il livello delle squadre e conosciuto meglio le tecnologie e gli slittini che venivano utilizzati in questo sport. Poi avevo conosciuto già il team norvegese (tra pionieri del panorama internazionale, ndr), instaurando sin da allora un ottimo rapporto di amicizia e collaborazione. E questo scambio ci ha aiutato moltissimo a crescere nel corso del tempo. È logico che quando s’inizia un percorso lo si fa perché si crede in un progetto e spera che possa andare avanti. E i risultati credo siano andati al di là delle prospettive iniziali».
Il suo impegno nella crescita del suo sport, può essere considerato un premio speciale che l’ha portato a essere il portabandiera?
«La soddisfazione personale è relativa. In prima persona non mi sento molto “l’artefice” di questo ruolo che mi è stato assegnato. Il premio è in primis da assegnare alla nostra squadra, di cui io sono semplicemente il capitano. Quindi, essendolo sin dalla sua fondazione, mi ha fatto molto piacere esserlo 11 anni fa. E lo è tuttora. Ho anche chiesto ai miei compagni se ci fosse qualcun altro disposto a prendere il mio posto, ma mi hanno tutti risposto con grande entusiasmo di voler lasciare il ruolo a me. Il ruolo di portabandiera? Beh, è un discorso che arriva di conseguenza: un riconoscimento dato alla squadra per i grossi passi in avanti fatti negli ultimi anni. È la chiara dimostrazione che se si lavora assieme, arrivano soddisfazioni e appagamento. Di sicuro sono davvero molto orgoglioso di poter aprire la sfilata della delegazione azzurra e del riconoscimento che ho ricevuto. Per il resto, mi sento molto tranquillo per la cerimonia d’apertura: credo proprio che l’agitazione salirà ulteriormente per la partita d’esordio di sabato».
Sarà anche la prima volta che un giocatore italiano di uno sport di squadra come portabandiera della delegazione.
«Il presidente del Cip (Comitato Italiano Paralimpico) Luca Pancalli ha confermato che è un riconoscimento a tutta la squadra di sledge hockey. Un portabandiera non proveniente da uno sport individuale? Sicuramente non è un fatto straordinario. Mi ricordo che a Vancouver, nel 2010, l’allora capitano (Jean Labonté, ndr) della Nazionale canadese aprì la sfilata della delegazione di casa».
Da Torino a Sochi. Come descriverebbe le esperienze a “tre gocce” precedenti e come ha gestito le vigilie dei Giochi?
«Non c’è da gestire granché. L’unico aspetto veramente importante è quello relativo all’allenamento. Perciò, si sfrutta il proprio tempo libero per andare in palestra o fare handbike per prepararsi individualmente. Poi, due o tre volte alla settimana, mi alleno a Torino sul ghiaccio. Poi, da fine ottobre quando la stagione è entrata nel culmine dopo la qualificazione, ogni weekend ci siamo ritrovati con i raduni della Nazionale. Non sempre è così semplice, perché molte volte dipende dai lavori dei ragazzi della squadra e dalla possibilità di assentarsi. Due allenamenti al giorno fino alla domenica e qualche partita amichevole o tornei con le altre squadre nazionali. Non è cambiato molto sotto questo punto di vista. La qualità della squadra è migliorata molto. Quanto alle precedenti Paralimpiadi – spiega Chiarotti - a Torino 2006 fu una vera festa delle emozioni. Era il vero esordio per la squadra, tra l’altro in casa, ed eravamo osannati dall’ambiente. Entrare per ultimi alla cerimonia d’apertura, avere lo stadio pieno e festante durante le nostre partite anche se dal punto di vista sportivo non eravamo competitivi. Nel 2010, a Vancouver, è arrivata quella che si potrebbe definire una consacrazione del movimento. Se ci aggiungi il fatto di andare a giocare in Canada è stato bellissimo. Esibirsi nella patria dell’hockey, dove tutti sanno tutto di questo sport, non poteva che essere gratificante».
E Sochi, invece, quali programmi ci sono per il team?
«Per questa Paralimpiade direi che c’è la possibilità di migliorare, giocandosela con tutti i rivali. Mettiamo in conto che c’è anche la possibilità di perdere tutte le partite, dato il livello altissimo, ma vincere due gare potrebbe metterci in rampa di lancio addirittura per una medaglia. Diciamo però, che l’ideale sarebbe fare una finale per il quinto posto, il che vorrebbe dire migliorare il settimo del 2010».
La crescita della vostra Nazionale può essere, secondo lei, paragonabile a quella del movimento paralimpico italiano?
«Credo sia difficile stabilire una connessione certa tra le due cose. Ma parlo per lo sledge hockey e di certo le cose sono migliorate negli ultimi anni. Si sono avvicinati molti giovani alla disciplina e anche a livello di campionato italiano, siamo riusciti ad aggiungere da questa stagione una quarta squadra. A livello generale si pensava che dopo Londra 2012 e la visibilità anche mediatica possa aver fatto bene al movimento in Italia dello sport per disabili».
Com’è stata la cerimonia della sua investitura come portabandiera, al Quirinale?
«Una bellissima ed emozionante sensazione. Ci siamo trovati con Armin Zöggeler prima che il Presidente della Repubblica Napolitano ci consegnasse il tricolore ed eravamo entrambi agitati. Non sapevamo bene come comportarci in un’occasione così formale, Armin mi ha anche chiesto qualche consiglio su come rivolgerci al Presidente. Quando è finita la cerimonia eravamo molto meno tesi, mi ha dato una pacca e, smorzando la tensione, mi ha detto: “è andata bene!”. Poi ho tenuto nel momento stesso a ringraziare il Comitato Paralimpico e la mia squadra per l’esperienza che ho fatto anche in quell’occasione».
Nel torneo paralimpico c’è il top dello sledge hockey. Fin dove potreste arrivare?
«Non facciamo programmi, anche se sarà molto dura. Ma il livello delle squadre è molto simile. A conferma delle possibilità che si potrebbero aprire vincendo delle partite (l’Italia è nel girone A con Usa, Russia e Corea, ndr). E le ambizioni di tentare il colpaccio ci sono. Apriamo con Stati Uniti-Italia. Oggettivamente partiamo sfavoriti e uno 0-2 potrebbe essere un buon punteggio? No, la nostra idea è quella di giocarci tutto in partenza. La vittoria all’Europeo 2011 ci ha dato tanta consapevolezza. Abbiamo giocatori nuovi e talentuosi come Gianluigi Rosa, fuoriclasse come Florian Planker e delle colonne importanti della squadra del calibro di Gregory Leperdi. In più due baby (Depaoli e Larch): un’evoluzione che parla da sola».
In conclusione. Si sente pronto per il tuo doppio ruolo portabandiera e capitano?
«Assolutamente sì, lo sono sia sul ghiaccio sia allo stadio. Per ora posso dire solo che farò attenzione a non inciampare durante la cerimonia (ride)».
Ultimi in Sport invernali
Le azzurre si spostano a Loveland per lavorare sul gigante: Brignone e Bassino guardano a tre gare chiave
La nazionale in rosa si è spostata in un'altra ski area di riferimento in Colorado, sabato 30 ci sarà la grande sfida di Killington e poi la doppia a Mont-Tremblant. Da martedì prossimo, a Copper Mountain ecco le altre velociste guidate da Curtoni e Pirovano.
3